venerdì 24 maggio 2013

Sulla Grecia


 

Oggi in un liceo classico di Catania ho letto Ghiorgos Seferis e Titos Patrikios. 
Leggere Seferis mi emoziona sempre, ma leggere Patrikios mi emoziona e mi turba: dolente e umanissimo il suo verso.

Ghiorgos Seferis sulla Grecia: 
Il mondo intero è la patria della poesia 
(dal discorso di accettazione del Premio Nobel, 1963; tr. it. M. Vitti)

Appartengo ad un piccolo paese. Un promontorio roccioso nel Mediterraneo, niente lo contraddistingue se non gli sforzi della sua gente, il mare e la luce del sole. E' un piccolo paese, ma la sua tradizione è immensa ed è stata tramandata nel corso dei secoli senza interruzione. La lingua greca non ha mai cessato di essere parlata. È passata attraverso tutti quei cambiamenti attraverso cui passano le cose viventi, ma non c'è mai stata una frattura. Questa tradizione è caratterizzata dall'amore per l'umano; la giustizia è la sua norma. Nelle tragedie classiche l'uomo che eccede la misura è punito dalle Erinni. E questa legge di giustizia ha valore anche nel regno naturale. Trovo significativo che la Svezia voglia onorare la poesia, anche quando origina da un piccolo paese. Perché credo che la poesia sia necessaria a questo mondo moderno in cui siamo affetti da ansia e paura. La poesia ha le sue radici nel respiro umano: e cosa mai saremmo se il nostro respiro dovesse venir meno? La poesia è un atto di fiducia: e chi sa se il nostro disagio non dipenda da una mancanza di fiducia? Oggi dobbiamo ascoltare quella voce umana che chiamiamo poesia, quella voce che rischia sempre di andare estinta per mancanza di amore, ma che sempre rinasce. Minacciata, trova sempre un rifugio. Rifiutata, rimette sempre radice nei luoghi più impensabili. Non fa distinzione tra luoghi grandi o piccoli; la sua patria è nel cuore degli uomini di tutto il mondo; ha la forza di scongiurare il circolo vizioso dell'abitudine. Sono grato all'Accademia di Svezia per essere consapevole di questi fatti. 

Titos  Patrikios sulla Grecia (1954; tr.it. N. Crocetti)
 


Grecia percossa sulla schiena,
tiranneggiata, con le tue ferite purulente,
stramazzata nel fango, calpestata,
che tutta notte gemi invocando un po’ d’acqua
come un detenuto in isolamento,
dopo le torture. 
Povera Grecia, con i piedi gonfi
nelle vecchie scarpe sfondate,
coi vestiti smessi dei padroni,
come una donna di servizio, che conserva
metà del cibo per i figli.

Grecia svergognata, avvilita,
coi seni nudi a un angolo di strada,
che ti concedi al primo di passaggio
ai marinai stranieri, ai militari
che ora vengono indossando altre divise,
ai turisti dagli abiti variopinti.
Grecia con la lunga tunica bianca
noleggiata dal fotografo del quartiere
con la corona di carta sui capelli tinti,
le braccia flaccide, denudate
per farti fotografare alle feste della scuola
accanto a colonne di cartapesta colorate.

Grecia dimenticata, sola, che di notte
ti aggiri con i capelli sciolti
vendendo fiori nei locali notturni,
scivolando tra musiche e automobili
tra spioni e apatici avventori,
camerieri che cambiano turno, e quei due
che buttano volantini nell’ombra.
Grecia, che poco prima dell’alba spargi
una manciata di terra sui giustiziati
e chiudi loro gli occhi spalancati.

Grecia tremenda, con la spada sguainata
vendicatrice implacabile, spietata,
Grecia che sai perdonare, che lenisci,
che spalmi balsamo sulle ferite,
che ci reclami, che hai bisogno di noi
anche quando ci scacci.


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